Dalla vasca del Fuhrer a ritroso nell’arte della Miller
Mi piacciono i romanzi che, senza troppe pretese, insegnano qualcosa. Quelli che aprono un dialogo con altri libri, che ti portano a curiosare in rete cercando luoghi, amicizie, citazioni e foto. Come “La vasca del Fuhrer” di Serena Dandini (Einaudi editore), che racconta l’avventurosa vita – o forse dovrei dire vite – di Lee Miller, al secolo lady Elisabeth Miller Penrose.
Il romanzo inizia con l’immagine della Miller, inviata di guerra per Vogue che, dopo giorni per le strade della Germania liberata dal nazifascismo, con i segni, gli odori e la sporcizia della guerra addosso, ha la possibilità di farsi un bagno: a sua disposizione la vasca dell’uomo che ha terrorizzato il mondo e sterminato milioni di persone. Prima però, con un gesto provocatorio ed estremo, si fa immortalare nella vasca del Fuhrer, appunto. Da lì, Serena Dandini ripercorre la vita dell’affascinante – e poco equilibrata – protagonista, senza fronzoli, né ostentazioni: parla al lettore dell’intuizione alla base del romanzo, dei viaggi sulle tracce della Miller, nelle strade che lei ha percorso; non nasconde la curiosità che la porta a mettere insieme pezzi di vita a partire dalle immagini che vedono Lee Miller davanti o dietro l’obiettivo. Ci porta nella provincia americana che l’ha ferita da bambina e ci trascina per le vie di Parigi, fin dentro allo studio di Man Ray. Ci sbatte addosso la polvere del deserto del Marocco e ci conduce sulle strade dell’Europa in macerie. Siamo sulle spiagge della Costa Azzurra, mentre Picasso versa da bere, per trovarci poi storditi e feriti in Inghilterra, nella patria che l’irrequieta Miller sceglie o dalla quale, forse, si lascia imprigionare. Insomma “La vasca del Fuhrer” è un romanzo all’apparenza leggero, ma che in questi tempi dove i confini si stringono e si mettono da parte le aspirazioni di movimento e scoperta, porta il lettore in un’epoca lontana, che stupisce per la sua modernità, e terribilmente tragica, con analogie cupe col nostro presente. Rende vividi luoghi che, visti dagli occhi di straordinari artisti spesso dimenticati, diventano mondi da immaginare. E in qualche modo ci ammonisce, ricordandoci che le prigioni peggiori sono quelle dell’anima.