Depistaggio
Depistaggio. «Deviazione, manipolazione dei sospetti emersi in un’indagine». E ancora: «Manovra diretta a trarre in inganno ed alterare i fatti, per sviare l’attenzione da qualcosa che si vuole tenere nascosta». Sono queste le definizioni che si trovano nei più comuni dizionari per descrivere il sostantivo maschile che deriva dal verbo depistare, la cui etimologia va ricercata nella parola pista e che quindi significa, alla lettera, far uscire dal sentiero tracciato.
Chi commette un depistaggio porta quindi sulla falsa via, confonde, fuorvia. Un termine che, negli ultimi giorni, è apparso sui titoli dei principali media italiani associato alla parola mafia. Perché è depistaggio, secondo i giudici della Corte di Assise di Caltanisetta, quello compiuto da tre poliziotti durante le indagini sulla strage di via D’Amelio. A ventisei anni dalla morte del giudice Paolo Borsellino l’esito del processo “Borsellino quater” non lascia dubbi: «Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», hanno detto i magistrati. Rendendo noto quello che da tempo si sospettava, ovvero che uomini dello Stato avessero alterato il corso delle indagini, anche costruendo false testimonianze, perché non si conoscesse la verità su quanto accaduto in quell’estate del 1992.
Adesso per i tre poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, è stato chiesto il rinvio a giudizio. Inoltre è in corso, per tutti loro, l’accusa di calunnia.
Nella lunga motivazione depositata sabato scorso i giudici fanno delle ipotesi sui motivi per cui le indagini furono “portate fuori dalla giusta pista”. È certo, dunque, che si continuerà ad indagare, con la speranza di trovare risposte a quanto accaduto in uno dei periodi più bui della storia italiana. Intanto ci auguriamo che la parola depistaggio non sia più associata all’operato di uomini dello Stato che, con le loro azioni, sono andati contro il senso delle istituzioni stesse: quello di servire il Paese e i suoi cittadini, muovendosi sempre sulla corretta pista.